La Confraternita
Le Origini
L’anno Mille è trascorso portando con sé l’angosciante paura della fine imminente. Nulla di catastrofico sembra essere accaduto mentre, in realtà, tutto un mondo è scomparso.
L’Uomo si riscopre piccolo e peccatore, bisognoso di una propria spiritualità. Per cancellare i peccati e ottenere il perdono di Dio, le giornate si riempiono di preghiere, gli anni di digiuni e penitenze mentre il pellegrinaggio si rivela il mezzo privilegiato per lucrare la salvezza dell’anima.
In questa nuova concezione di vita la strada e il viaggio diventano i veri protagonisti del Medioevo. Gerusalemme costituisce la meta e la via Francigena e la Sacra Langobardorum diventano gli assi viari privilegiati che consentono di raggiungere il Gargano. Di qui, i pellegrini possono agevolmente imbarcarsi in uno dei tanti porti pugliesi per raggiungere la Terra Santa.
Il viaggio, però, è ugualmente lungo, estenuante e pericoloso e richiede la presenza di luoghi di ospitalità e di assistenza spirituale e materiale, specie per gli infermi. Anche Molfetta, città rivierasca, si scopre tappa di questi sacri viaggi e, per assicurare assistenza e accoglienza ai numerosi pellegrini, vede sorgere – nel suo territorio – chiese e ospedali che, promossi dai più famosi ordini ospitalieri quali i Templari e i Gerosolimitani, si avvalgono dell’opera di ordini religiosi.
Fra tali diverse istituzioni si inserisce l’ospedale civico che, adiacente alla chiesetta di Santo Stefano, collocata nel suburbio a poca distanza dalla porta principale della città, è gestito dall’Università che beneficia dell’opra di volenterosi cittadini i quali, in virtù delle loro convinzioni religiose e cristiane, possono essersi costituiti in confraternita.
Le fonti consultate non consentono di stabilire con certezza la data di fondazione del Sodalizio e, pur se si presume che possa essersi costituito in periodo medioevale, sia per la denominazione assunta (tipica delle confraternite del tempo), sia per l’abito confraternale adottato (un sacco rosso), identificativo di compagini associative dedite all’assistenza spirituale e materiale dei pellegrini e degli infermi, si deve giungere alla prima metà del secolo XV per trovare documentazioni che, denominandolo Confraternita di Santo Stefano dal Sacco Rosso, ne certifichino l’esistenza.
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Il Cinquecento
I tempi però sono già mutati. L’inurbamento del contado ha generato nuove esigenze e uno strato notevole di popolazione vive in condizioni di povertà.
Per questo, pur non cessando gli scopi istituzionali per cui è sorta, la Confraternita allarga i propri impegni caritativi alla pia pratica del sostegno morale degli infermi e degli agonizzanti, unitamente all’inumazione gratuita dei defunti, specie se poveri e indigenti.
Eppure, nonostante la presenza di fasce di popolo meno abbienti, la città non può dirsi povera. Il suo porto pullula di navi e mercanti genovesi, veneziani, amalfitani oltreché ragusani e dalmati in generale che sviluppano un commercio di tutto rispetto mentre fra i suoi cittadini annovera famiglie nobili per casato e famiglie rispettabili per discendenza cui si accomuna un patriziato formato da famiglie di notabili da più generazioni. Il governo della città, però, pur condiviso da nobili e popolani, è tumultuoso.
I malcelati dissapori fra le due parti si trascinano per lungo tempo finché esplodono in una pagina cruenta di storia cittadina.
Nel 1529, la città subisce il saccheggio da parte di truppe francesi alleate ai Veneziani che, mettendola a ferro e a fuoco, ne distruggono gli edifici e gli archivi. Da quella distruzione non scampa neppure la chiesa di Santo Stefano la cui ricostruzione impegnerà la compagine confraternale per più di cinquant’anni.
Intanto alla guida pastorale della città assurge il Vescovo Maiorani che, nel riordino generale della Diocesi e, in ottemperanza ai dettami del Concilio di Trento in materia di culto, pone le basi per l’aggregazione delle confraternite locali a quelle romane perché possano beneficiare sia dei vantaggi spirituali derivanti dalle Indulgenze concesse, a quelle, dai Papi sia di un arricchimento culturale e conoscitivo per meglio incidere nell’opera evangelizzatrice della Chiesa.
Sollecitata in tal senso, la Confraternita di S. Stefano, nel 1586, si aggrega all’Arciconfraternita della SS. Trinità de’ Pellegrini e Convalescenti di Roma.
L’avvenuta aggregazione si pone a coronamento dell’impegno profuso dai Confratelli nella ricostruzione del proprio edificio di culto che, danneggiato dal sacco del 1529, vede il suo completamento proprio in quello stesso anno così come si legge nel cartiglio lapideo che ne sovrasta l’ingresso.
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Dal Seicento al Settecento
L’attività confraternale riprende con nuovo afflato devozionale e, in virtù delle manifestazioni paraliturgiche che organizza, comincia a farsi spazio nella generale considerazione della cittadinanza.
Una delle maggiori manifestazioni rituali si incentra nella serata del Giovedì Santo allorquando la Confraternita, durante la processione penitenziale, inscena brevi sacre rappresentazioni.
Queste, però, intaccano notevolmente le risorse finanziarie del Sodalizio e nel 1614 la Confraternita considera l’idea di rinunciarvi.
Intanto la città si espande, il suburbio si è urbanizzato e l’unica parrocchia esistente non riesce a far fronte ai bisogni spirituali della popolazione. Necessita una nuova parrocchia che il Vescovo del tempo, Mons. Loffredi, individua nella chiesa di S. Stefano sia perché sita fuori le mura e quindi non vincolata dalla chiusura delle porte della città, sia perché sede di una confraternita che fa, del conforto spirituale ai moribondi, uno dei suoi scopi istituzionali. Così, nel 1671, la Chiesa di S. Stefano diventa parrocchia.
Sono gli anni in cui la Confraternita ha la possibilità di acquisire le statue dei Misteri e di modificare quella processione penitenziale che la depaupera finanziariamente. Nasce un nuovo modo di rievocare la Passione di Cristo e un nuovo modo di espressione della religiosità popolare: alle processioni medievali con Croce e reliquie subentrano quelle con simulacri.
L’attività confraternale prosegue nello svolgimento delle proprie pratiche devozionali finché nuove leggi non intervengono a disciplinarne la vita associativa. Il Concordato del 1741, con l’istituzione del Regio Assenso, obbliga – di fatto – tutte le Confraternite a dotarsi di uno strumento normativo che, differenziandole, le identifichi e, in ottemperanza alle nuove disposizioni, anche la Confraternita di S, Stefano, nel 1764, si munisce del suo primo statuto scritto, approvato da Ferdinando IV di Borbone nel 1767.
In esso si definiscono le finalità istituzionali e le incombenze di culto che diventano preponderanti finché dura l’istituzione parrocchiale. In quello stesso anno, a causa del decreto regio di espulsione dei Gesuiti dal Regno, l’attuale Cattedrale di Molfetta, già chiesa dei Gesuiti, passa sotto la giurisdizione vescovile che, nel 1785, ridisegna gli ambiti parrocchiali della Diocesi.
La chiesa di S. Stefano perde in tale circostanza la qualifica di parrocchia a favore dell’attuale Cattedrale e torna in pieno possesso e gestione dell’Arciconfraternita.
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L’Età Moderna
A poco a poco il sodalizio si libera dei tanti impegni di culto che si erano accumulati con l’istituzione parrocchiale e prende, sempre più, a concentrare la sua attenzione sul periodo quaresimale pur ottemperando alle leggi dello Stato che si fanno di volta in volta sempre più incisive.
Nel 1856 l’Arciconfraternita chiede di poter sostituire il cappuccio dell’abito confraternale con il cappello ma la richiesta è accolta solo in parte nel senso che il Decreto Regio concede l’uso del cappello (che tutt’oggi completa la divisa confraternale pendendo, ripiegato, sul fianco sinistro) ma non elimina il cappuccio.
L’unificazione d’Italia non comporta sconvolgimenti nella prassi confraternale che tende a valorizzare sempre più e sempre meglio la propria processione dei Misteri, diventata patrimonio culturale e rituale dell’intera cittadinanza e sulla cui organizzazione si concentra l’interesse e l’impegno del Sodalizio anche in considerazione degli eventi bellici che scuotono la prima metà del Novecento.
Il dopoguerra e le risultanze del Concilio Ecumenico Vaticano II vedono l’Arciconfraternita risvegliarsi a nuova vita anche per il contesto socio-economico creatosi. Al costante afflusso di nuovi confratelli si affianca la necessità di nuove norme statutarie che sfociano in regolamenti più aderenti ai tempi.
Nasce la Pia Unione Femminile e la Bontà di Santo Stefano: due organismi che consentono, da un lato, la partecipazione femminile e, dall’altro, una più mirata azione caritativa del Sodalizio.
Infine i confratelli, percepito il messaggio innovativo del Concilio, prendono a incontrarsi nella Messa domenicale e in ogni altra circostanza liturgica, riscoprendo nella preghiera comunitaria la motivazione fondamentale del movimento confraternale.
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Bibliografia:
G. DE LUCA, Storia di Molfetta, Giovinazzo 1884;
L.M. DE PALMA, Vescovi molfettesi del ‘500 al servizio della sede apostolica ,Roma 1987;
I. PANSINI, La chiesa e l’Arciconfraternita di Santo Stefano, Genova 1980;
M. ROMANO, Saggio sulla storia di Molfetta dall’epoca dell’antica Respa sino al 1840, vol. II, Napoli 1842;
A. SALVEMINI, Storia di Molfetta, vol. II, Bologna 1977;
G. VIESTI, La chiesa e l’Arciconfraternita di Santo Stefano di Molfetta. Note e documenti, Molfetta 2001. |